giovedì 15 agosto 2013

Il Cairo, un “mercoledì nero” che viene da lontano


La repressione cieca e sorda con cui in sei settimane si conclude la sedicente “seconda Rivoluzione” egiziana smaschera, se ce ne fosse ancora bisogno, le reali intenzioni della lobby militare e della parte più retriva del Paese. Esse trovano nel generale Al-Sisi l’uomo forte pronto a sparare sulla folla (come avevano fatto negli ultimi due anni il ministro dell’interno Al-Hadly e il feldmaresciallo Tantawi) e contemporaneamente il potenziale presidente-dittatore garante della propria casta, degli interessi di classe interni e di quelli d’un Occidente che non vuole rischiare avventure islamiche. Nonostante il balletto delle aperture e chiusure di Obama alla Fratellanza di Mursi Washington, il grande sostenitore e finanziatore di Forze Armate sempre più stragiste, simula imbarazzo e lancia richiami al bon ton d’un autoritarismo politicamente corretto. Però deve fare i conti coi risultati del proprio immobilismo ignavo che ormai accetta i volti più inquietanti della destabilizzazione del piccolo Medio Oriente. Fra essi, seppure in situazioni di differenti realtà politiche, il gioco d’azzardo alle spinte disgregatrici di guerre civili in corso (Siria) e striscianti (Egitto) introduce nuove emergenze.

L’impasse bipolare in cui l’Egitto si dibatte non può protrarsi oltre. Ma è anche vero che la via dell’illegalità intrapresa dai generali e dai loro “utili idioti”, come il perennemente acquiescente e dimissionario ElBaradei perfetta maschera liberale di periodici massacri, diventa il percorso più tragico per una nazione che sognava democrazia e libertà. La “Rivoluzione dei generali” miete vittime al di là di qualsiasi credo politico e religioso.  Oggi è l’ora degli islamisti moderati ma si prepara a togliere spazio ai salafiti, opportunisti dell’ultim’ora e ai movimentisti tatticisti della prima. Tardivamente i politicizzati del “6 Aprile” e i “Socialisti rivoluzionari” s’accorgono che anche per loro non ci sarà più ossigeno da respirare né angoli di Tahrir dove sedersi per preghiere laiche e utopie di cambiamento.  Il trattamento si ripeterà per molti. Il golpe bianco ha mutato colore, s’è macchiato del sangue di 600 o 4.600 (la reale cifra dei martiri non cambia la sostanza della propensione al massacro) e lascia in eredità solo i terribili gas degli uomini in nero e le mortifere pallottole di spietati cecchini che mirano alla testa e al cuore. Quelle teste e quei cuori possono non essere necessariamente di attivisti islamici perché Al-Sisi è egualmente devoto del Corano e della divisa che veste, e la fede per quest’ultima non lo esenta da trasgredire agli insegnamenti del sacro testo.

Se per scalzare Mursi i Tamarod puntavano a vincere facilmente sostenendo d’avere venti milioni di egiziani al seguito e contando sui  blindati dell’esercito e sulle esibizioni aeree che salutavano quel pezzo d’Egitto entusiasta dell’arresto d’un presidente che non sentiva suo. Oggi a dominare la scena sono il terrore e la morte, il coprifuoco, le possibili leggi marziali, la ricerca di ordine e obbedienza. Ben oltre i princìpi della Costituzione scritta e da riscrivere, il contrasto fra laici e islamici è diventato esclusiva lotta per un potere di fazione che ha favorito la parte più forte, quella che pratica il mestiere delle armi, che azzera le altre con ogni strumento, giustificandosi con presunti interessi nazionali e tutela del Paese. Proprio così. La stessa popolazione che lo scorso 30 giugno salutava i militari se ne sta chiusa in casa temendo il peggio. Il meglio che può sognare per il futuro è l’impossibilità di manifestare. Mentre la Fratellanza decimata nelle strade è sconfitta due volte: dall’essere rimasta prigioniera d’un ego capace di alienarle qualsiasi alleanza e dall’incrudirsi d’uno scontro politico comunque cercato che a questo punto potrebbe ricondurla verso la scelta antica d’una clandestinità armata. Oppure provocarne un’emorragia soprattutto di giovani attivisti che cercheranno rifugio in proposte di jihad. 


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