lunedì 16 settembre 2013

Iran-Stati Uniti, un ayatollah per amico


Sono state lettere ufficiali, non “cinguettii”, che pure il presidente iraniano Rohani utilizza, a introdurre un ‘piano C’ nella crisi siriana che riguarda i rapporti fra Washington e Teheran. Un contatto storico dopo il blocco di decenni acuito anche dalla gestione del pasdaran Ahmadinejad. Un approccio che affianca il pragmatico ‘piano B’ con cui Kerry e Lavrov hanno deciso che su Damasco non cadranno i Tomahawk. Per ora. Scelta che non piace ai duri della politica statunitense come McCain, pronti ad aiutare Obama nel suo braccio di ferro bellicista, e a detta degli analisti dei maggiori quotidiani d’Oltreoceano si logorerà. Perché sul fronte dell’arsenale chimico di Asad gli ispettori non potranno verificare ciò che vorrebbero.

La notizia nella notizia è comunque l’apertura di un canale diplomatico di vertice, nelle persone dei rispettivi presidenti, fra Stati Uniti e Iran giunti quasi allo scontro aperto nei momenti più duri dell’embargo. Sanzione esasperata dallo stesso Obama quale estrema ritorsione a un progetto nucleare anche in quel caso inverificabile e contestato da taluni tecnici dell’Aiea. Lo spettro dell’arma atomica, sempre negata dal Paese degli ayatollah, e sospettata da Cia, MI6 e Mossad, per i geo strateghi è un tutt’uno col teorema egemonico regionale lanciato sin dai tempi della Rivoluzione khomeinista e rivivificato dalle velleità politiche delle comunità sciite su Libano e Iraq. La Siria, costruita sul potere alawita cui appartiene il clan degli Asad, cementa tale disegno.
Tanto che nel tentativo di ‘cambio regime’ perseguito dopo la reazione alle proteste popolari del marzo 2011 l’attacco all’Iran rientrava non solo nei desideri dei falchi di Tel Aviv, ostili più alla leadership di Teheran che a quella di Damasco, ma nell’agguerrita componente neocon statunitense. E fra il vociferare del ‘regime change’ provato col sostegno all’Onda verde del 2009 e i successivi attentati agli ingegneri iraniani impegnati nel progetto nucleare le tensioni erano cresciute a dismisura. La rude fazione del ‘partito combattente’, a lungo sostenitrice di Ahmadinejad, esaltava levate di scudi muscolari come le operazioni navali nello stretto di Hormuz che avevano messo in fibrillazione la Quinta Flotta.
Anche per la ventilata spedizione punitiva in Siria osservatori internazionali parlano dei due tempi: colpire Asad per indebolire Teheran e il suo Risiko delle alleanze locali in attesa della guerra all’Iran. Eppure fantasiosi o ben informati analisti strategici avevano di recente ventilato l’ipotesi d’un cambio di rotta a 180° da parte dell’amministrazione a guida Democratica, pronta a far indossare la maschera aggressiva all’ex pacifista Kerry, per smarcarsi con approcci diplomatici verso il fulcro dell’Asse del Male. E il disponibile Rohani si presta ai dialoghi scritti e parlati non solo per una consolidata frequentazione dell’Occidente.
Il partito del neo presidente, e la stessa Guida Suprema, si pongono due obiettivi vitali: rilanciare l’economia e controbattere il tentativo di Jihad con cui il fondamentalismo qaedista gioca la sua partita nel Piccolo e Grande Medio Oriente. Per procedere sulle due strade indispensabili a contenere malumori interni e compattare lo spirito sciita e laico, è necessario rompere l’isolamento in cui la nazione è caduta con l’abbandono della gestione riformista di Khatami. Un’esperienza densa di contraddizioni, rimasta però nella mente di quei padri che hanno oggi figli ventenni. E discutono coi loro sogni. Un Iran legato a intenti egemonici che non tramontano ma egualmente orientato a strategie diversificate, è il nemico-amico con cui la Casa Bianca inizia a chattare.

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