giovedì 30 aprile 2015

Afghanistan, i danni collaterali dell’insorgenza

Chi attenta cosa - I due ultimi grossi attentati in Afghanistan: l’attacco al santuario Dolakai Baba e quello a una filiale della Kabul Bank, che hanno provocato 33 vittime e oltre 100 feriti nella zona di Jalalabad, stanno facendo discutere stampa e politici locali su quale sia la matrice degli stessi. La rivendicazione lanciata via Twitter dal portavoce interno dello Stato Islamico, Shahidullah Shahid, può essere autentica o simulata. Si pensa anche ai talebani del Khorasan, negli ultimi mesi avvicinatisi all’Is, oppure ai talebani di casa. L’accertamento di chi siano mente e braccio esecutivo ha una ricaduta sull’attualità politica per comprendere se nuovi attori si siano impossessati della scena dell’insorgenza terroristica. L’uso di ordigni artigianali (Improvised explosive device) riporta immediatamente alla rete dei talebani interni che dal 2007 hanno introdotto, diffuso e massicciamente utilizzato questo genere di bombe. Tesi suffragata anche dall’obiettivo colpito: fra i morti della Kabul Bank ci sono diversi uomini che erano in fila per il ritiro dello stipendio, si tratta di soldati dell’esercito, pur celati in abbigliamento comune, che da sempre sono un bersaglio. Ma il secondo obiettivo già fa cadere questa pista, visto che i talebani non attaccano i santuari, considerati luogo di fede.

Reclutamento giovanile - Invece componenti del fondamentalismo salafita, che adottano la sigla Is, potrebbero rientrare fra i realizzatori della strage che, dal loro punto di vista, va a punire luoghi blasfemi dove si perseguono pratiche idolatre. Questa linea di scontro era sostenuta da Khadem, leader dei talebani pakistani attivi nella provincia di Helmand, colpito e ucciso per mezzo d’un drone due mesi addietro (le sue vicende le abbiamo ricordate in: http://enricocampofreda.blogspot.it/2015/02/talebani-lattrazione-del-daesh.html). Chi gli è subentrato etichetta le azioni direttamente come Stato Islamico e sta riscuotendo seguito fra le giovani generazioni, sia per simpatie di credo e pure nel reclutamento combattente. Giovanissimi con una pratica di cybertecnologie s’avvicinano alla propaganda del fondamentalismo salafita che viaggia speditamente sul web. Inoltre parecchi commentatori concordano su tale approccio tattico o sull’uso della sigla Is da parte di talebani abili nello sfruttare l’ultimo marchio jihadista per diversificare gli attacchi cui possono contribuire in base a un’acquisita esperienza militare. Secondo l’Unama è possibile che resistenti locali compiano attentati anche con sigle dell’Is per differenziare il panorama dell’insorgenza e non bruciarsi i rapporti con la cittadinanza.

Danni collaterali jihadisti - Nel 2014 i 382 attacchi talebani in Afghanistan hanno colpito in 236 casi obiettivi militari (interni, internazionali, gruppi armati pro governativi) ma hanno, altresì, causato 1682 vittime civili. Un recente episodio, sempre a Jalalabad: per uccidere due militari su un convoglio Isaf sono contemporaneamente morti 8 civili e ne sono stati feriti 15. Operazioni disordinate di questo genere diventano controproducenti per la rabbia che suscitano fra la popolazione. In tal caso la rete dei talebani di casa colpirebbe le truppe - quelle interne o della Nato -, terrebbe alto il livello di paura diffusa fra la gente senza venire additata come diffusore di morte quando provoca quei “danni collaterali”, né più né meno che gli occupanti occidentali. Certo oggi è sempre più difficile verificare l’attendibilità delle rivendicazioni mentre il termine Daesh sta creando un crescente disagio fra gli afghani. I timori più diffusi riguardano un rilancio della militanza più radicale, rivolta alla stessa tribalità etnica interna che può riproporre orrori già vissuti nel periodo della guerra civile degli anni Novanta. Ma il radicalismo jihadista trova uno splendido “alleato” nella prosecuzione delle operazioni militari statunitensi, quelle di cielo coi droni e di terra, con le truppe ufficiali della Nato e ufficiose dei contractors, come conferma anche il New York Times.

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