sabato 10 ottobre 2015

Turchia, la linea del terrore

Istituzioni e partiti turchi condannano la strage di Ankara, avevano stigmatizzato anche quella di Suruç, ma dalle indagini non era scaturito granché. Ipotesi d’infiltrazioni fra i manifestanti di miliziani dello Stato Islamico o dei Servizi, il casalingo Mıt e non solo. Ma chi vuole destabilizzare la Turchia? Con l’eccidio della capitale, che triplica il numero delle vittime rispetto alla precedente tragedia di luglio, l’obiettivo diretto sono: il partito della novità politica turca, l’Hdp, i suoi attivisti che s’affratellano e travalicano gli steccati del solo gruppo filo kurdo. E’ la fusione e il rinforzo che quella comunità e la sua questione ricevono con la creatura politica che li ha portati al 13% e con cui hanno bloccato il piano istituzional-autoritario della Repubblica presidenziale. Con la pratica del terrore diffuso avanza anche il disegno di riportare indietro la storia turca, farla riconvergere verso l’impossibilità di vivere la politica alla luce del sole, manifestando, riunendosi nelle strade e nelle piazze. Come accadeva all’epoca segnata dai golpe degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta quando la vita collettiva doveva subire il giogo dello Stato armato. Questo clima la Turchia, che il presidente Erdoğan stava plasmando a suo piacimento, ha iniziato a riviverlo da un paio d’anni.
Prima con l’assalto alla gioia di vivere dei ragazzi di Gezi park, anch’essi uccisi per via, schiacciati e umiliati. Quindi con l’assillante e crescente bavaglio posto ai media, con la persecuzione all’informazione cavalcata direttamente dal presidente-sultano che, nelle valutazioni di tanti commentatori non solo interni, viene ormai dipinto come un autocrate megalomane. Lo scricchiolìo della macchina politico-organizzativa dell’Akp è sotto gli occhi di tutti, tanto che per tenere salda la propria base il partito ha dato spazio alla militanza più verace e feroce che nelle settimane scorse si sfogava rompendo teste e vetrine dell’opposizione politica e informativa. Ma sembra non bastare. La politica del terrore, che la stessa Intelligence interna non aveva mai dismesso, tranne che nei mesi dei colloqui con Öcalan diretti dal suo responsabile Fidan, è ripresa in tono sanguinario verso i militanti del Pkk e verso chiunque sia solo sospettato di aiuto o simpatia alla guerriglia kurda. Non ci riferiamo allo scontro aperto fra esercito e i suddetti combattenti, ripreso con l’asprezza degli anni Novanta, bensì ai suoi risvolti più spietati contro la popolazione civile, che in centinaia di casi torna a essere rapita e assassinata sul ciglio della strada da bande paramilitari.

Magari vicine al presidente o formate da agenti del Mıt attivi nell’ombra oppure dai mai morti Lupi Grigi. Questa rinata linea del terrore è la carta con cui oggi si cerca di fermare l’avanzata popolare della Turchia e della comunità kurda che non si piega ai diktat di Erdoğan, definito a gran voce “assassino” dai parenti delle vittime di Ankara, così com’era stato chiamato dalla gente di Soma durante la visita di pragmatica ai minatori superstiti. Seminare morte, inzuppare il Paese di sangue è la formula scelta dai manovratori della “Turchia oscura” che, con le elezioni del 1° novembre, può assumere una fisionomia addirittura peggiore del disastrato panorama di queste ore. Dietrologi vicini al potere sostengono che lo stesso governo è sotto attacco, da parte di forze occulte, dell’islamico statunitense Fetullah Gülen, nemico giurato dell’Islam erdoğaniano, da parte dell’Isis che si vendicherebbe di attenzioni mancate d’un governo che l’ha protetto e vezzeggiato o di potenze regionali avverse, a cominciare dai sauditi. Il quadro dell’intrigo può essere ampio, le sue ipotesi varie, quel che resta e interessa è l’aggressione alla democrazia e al popolo, un attacco presente ben prima la deflagrazione delle bombe. E che ordigni politicamente diretti aiutano a rivolgere contro chi si batte per un’emancipazione dall’autoritarismo, islamico o kemalista.

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