venerdì 11 novembre 2016

Afghanistan: avviso bomba per le truppe tedesche

Quattro morti, centoventi di feriti, come al solito qualcuno grave che non ce la farà a vedere altri soli. Sono le conseguenze dell’attentato compiuto ieri con un camion-bomba da un commando talebano presso il consolato tedesco a Mazar-i Sharif. Attentato immediatamente rivendicato con tanto di motivazione: una vendetta per i bombardamenti statunitensi compiuti su villaggi nella provincia di Kunduz che avevano ucciso 32 civili. Operazione ammessa dallo stesso comando americano che ha aperto l’inchiesta di prammatica per comprendere le modalità “dell’errore”. Insomma uno scenario che si ripete stancamente, dove cambia solo, aumentando, il numero degli afghani innocenti che perdono la vita. Certo anche per le reazioni talebane che hanno fatto segnare nel 2015 undicimila fra morti e feriti civili, l’esatto doppio dei militari e poliziotti afghani colpiti dalla guerriglia.  Mentre lo stillicidio continua, non si comprende come proseguirà la missione Nato, che con il Resolute Support vede sul terreno poco più di 13.000 soldati. Il sostegno maggiore alla controguerriglia viene dalle nove basi aeree da cui partono voli di caccia per bombardamenti mirati a seminare panico e morte, come dimostra l’ennesimo “errore” citato.
Più efficaci i colpi condotti coi droni che mirano a gruppi selezionati, fra cui talvolta s’eliminano leader, com’è accaduto nel maggio scorso a Mansour, primo sostituto del mullah Omar, poi rimpiazzato da Akhundzada. Ciò che, ormai da oltre un triennio, non accade è un’adeguata preparazione di truppe afghane (il reclutamento ha contato fino a 350.000 uomini); l’esercito locale che avrebbe dovuto sostituire la massa delle truppe Nato ritiratesi fra il 2013 e 2014 (c’erano fino a 100mila marines). Nonostante la profusione di fiumi di dollari, esperti, insegnanti d’ogni tipo, anche della più sofisticata e canagliesca controguerriglia provenienti da Langley, nei momenti topici l’Afghan National Security Forces ha dimostrato inconsistenza e inaffidabilità. Così nelle stanze della Casa Bianca e del Pentagono, gestione Obama, s’è rifatta avanti l’ipotesi dei colloqui coi talib. E l’esecutore di Kabul, il presidente Ghani, tramite il premier Abdullah ha agganciato uno degli immarcescibili verso signori della guerra, Gulbuddin Hekmatyar, per un ruolo istituzionale di ambasceria verso i clan dei turbanti. Se un tavolo di trattativa si dovesse riaprire e non è detto, perché tanti resistenti hanno chiaro il quadro della propria forza e dell’inconsistenza delle truppe governative, la sicura contropartita sarebbe l’abbandono totale del Paese da parte degli occidentali, basi aeree comprese.
Un passo che nessun generale a stelle e strisce si sente di accettare, non solo perché risulterebbe una disfatta peggiore di quella vietnamita, ma perché sfalderebbe il sistema di controllo asiatico che gli Stati Uniti hanno creato nei quindici anni d’occupazione. Da gennaio bisognerà vedere la volontà del neo presidente Trump e del suo staff neocon, ma ogni dipartita sarebbe un controsenso geostrategico. Se tutto dovesse restare inalterato, ecco che gli avamposti dei presidi Nato continueranno a essere obiettivi per ulteriori agguati. In quest’occasione sono presi di mira i tedeschi, che hanno 980 militi nei fortini di Mazar-i-Sharif, una delle province settentrionali. Oltre ai 6.800 marines dislocati a sud (Kandahar), est (Laghman) e nella capitale, il contingente più numeroso è il nostro, con 945 unità piazzate a ovest (Herat). Attualmente è impegnata la brigata Pinerolo, giunta nel maggio scorso e comandata dal generale Gianpaolo Mirra. Nel computo dei militari impiegati dalla Nato seguono: Romania (588), Turchia (523), Gran Bretagna (450), Repubblica Ceca (218), i Paesi coinvolti sono 39. Oltre al rischio attentati, esistono altri elementi di logoramento per gli occupanti, che se non l’incolumità rischaino la salute. Qualche militare rientrato in Italia è risultato affetto da filariosi, fastidiosa e pericolosa infezione parassitaria.


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