venerdì 29 gennaio 2016

Rapporto annuale HRW: un Afghanistan in caduta libera

Combattimenti aumentati, insicurezza totale, civili ancora massacrati, usurpazione e violenza a scandire giorni e ore di chi vive nella terra dell’Hindu Kush. Il rapporto annuale di Human Rights Watch raccoglie e testimonia tutto ciò senza far sconti al cosiddetto governo di unità nazionale con cui l’amministrazione Obama ha cercato d’inventarsi l’ennesimo esecutivo fantoccio. Maggiormente mascherato rispetto ai governi Karzai, eppure non meno inquietante sul fronte dei problemi irrisolti e addirittura aumentati.
Chi controlla cosa - I distretti finiti sotto il totale controllo talebano sono sensibilmente aumentati. Il rapporto non li quantifica, nei mesi scorsi alcuni analisti hanno contato 20 se non addirittura 24 province a giurisdizione talebana, calcolando probabilmente anche quelle dove le milizie degli insorgenti sono semplicemente presenti e battagliano contro  l’Afghan National Security Army. Sta di fatto che ampie zone che il   governo di unità nazionale afferma di dirigere, compresa la capitale, non sono affatto sicure. Le stesse Nazioni Unite ammettono che metà del territorio afghano è diventato estremamente pericoloso. Chiunque rischia di saltare in aria sui numerosissimi Ieds disseminati in fasce sempre più vaste del territorio, più che durante i grandi attacchi talebani alle forze Nato del biennio 2009-2010. Per ragioni d’opportunismo, prima che d’opportunità politica, Ghani e i suoi protettori d’Oltreoceano vendono la storiella d’una nazione in evoluzione alla ricerca d’una dimensione democratica. Di fatto non esistono princìpi che possano sostenere tale versione. Accanto agli ordigni di terra, agli attentati kamikaze, ai bombardamenti dal cielo, usurpazione e violenza continuano a devastare l’esistenza dei civili, causandone il 70% dei decessi.
Vittime civili - Si è registrato un incremento di attacchi rivolti a figure pubbliche, accanto ai sempre bersagliati uomini dell’apparato militare, è stata la volta di giudici, procuratori e personale del ministero di Giustizia. Fra gli obiettivi cominciano a rientrare gli operatori delle Ong, cosicché il lavoro in tale settore è diventato a rischio, per esterni e per locali, e sono diminuiti anche gli stanziamenti, complice la recessione globale. Si registrano decessi per l’aumento dell’uso di razzi lanciati su case situate in aree urbane, autori indistintamente miliziani in turbante e truppe dell’esercito. Ad aprile Ghani ha introdotto una norma per limitare soldati con meno di 18 anni d’età che, però, continuano a essere reclutati. Anche i talebani raccolgono nelle loro file i quattordicenni, usandoli spesso per azioni suicide; sono stati lanciati assalti contro le scuole chiuse a Kunduz, Ghor e nel Nuristan. Nel mese di maggio è stata approvata una dichiarazione per salvare le scuole, proteggere studenti, insegnanti e il personale che ci lavora. In alcune province settentrionali (Faryab, Kunduz) gruppi fondamentalisti sono accusati di abusi sugli abitanti di villaggi e rapimenti di persone detenute come ostaggio per chiedere riscatti.
Diritti delle donne - All’esordio l’amministrazione Ghani affermava un impegno per preservare e migliorare i diritti delle donne. Mese dopo mese ha disatteso ogni obiettivo: dal difendere l’esistente legge che punta a eliminare la violenza contro le donne, a bloccare i cosiddetti crimini morali che paradossalmente conducono in prigione donne in fuga da violenze domestiche e matrimoni forzati. Una documentazione dell’Unama riferisce che il 65% di casi esaminati con tanto di abusi su figli minori s’è risolto con una mediazione e solo il 5% ha prodotto un procedimento penale verso il capofamiglia, in genere il marito, ma anche il fratello o il padre della donna. A marzo l’omicidio della ventisettenne Farkhunda Malikzada, falsamente accusata d’aver bruciato una copia del Corano, aveva galvanizzato le attiviste dei diritti che hanno organizzato proteste pubbliche, domandando giustizia. Delle dozzine di giovani uomini che l’avevano fustigata, linciata e data alle fiamme una trentina sono stati arrestati, sebbene un congruo numero sia rimasto a piede libero. Il processo s’è tenuto in fretta e alcuni degli accusati hanno sostenuto che la propria confessione era stata estorta. Diciotto imputati sono stati assolti, quattro condannati a morte, otto a 16 anni di reclusione. Le sentenze capitali sono state trasformate in pene detentive. Di diciotto poliziotti responsabili di mancata protezione alla donna (il linciaggio s’era svolto in pieno centro di Kabul e la polizia era accorsa sul luogo), undici sono stati condannati e otto assolti. Il Parlamento afghano ha creato un ulteriore ostacolo ai diritti femminili quando ha respinto la proposta presidenziale di offrire la massima rappresentanza della Corte Suprema al giudice Anisa Rasouli, capo della Corte giovanile di Kabul. Parlamentari conservatori hanno lanciato una campagna contro di lei, sostenendo che non poteva servire la Suprema Corte. Nella ricerca di compromesso Ghani affermava di proporre un'altra candidata. Nessun nome è stato fatto.
Torture e libertà d’espressione - Fra le promesse del governo c’era l’eliminazione della tortura. Un ipotetico Comitato di lavoro che doveva attuare il piano non è mai sorto; in giugno l’Afghan Security Agency ha emanato un ordine che proibiva l’uso di torture per ottenere confessioni. I casi, attuati da agenti dell’Intelligence (NDS), sono leggermente diminuiti in alcune province rispetto all’anno 2014, ma su tutto il territorio nazionale sono aumentati. Secondo l’Unama un terzo dei detenuti afghani ha subìto pressioni e violenze nei centri di reclusione (quattro di essi si trovano nell’area di Kandahar). Comunque non è stato prodotto alcun report di denuncia su tali pratiche. Il fronte mediatico, presente con varie testate ed emittenti, ha registrato un incremento di violenza contro i giornalisti. Nel maggio il governo ha dismesso la Commissione d’investigazione di violazione sulla comunicazione, un organismo che in passato era servito per molestare e intimidire i cronisti. Doveva essere rimpiazzato da una consulta con giornalisti e gruppi della società civile per istituire una Commissione sui mass media che valutasse le eventuali dispute sulla comunicazione. Della Commissione si son perse le tracce. Nel frattempo il governo imponeva la restrizione sui reportage nelle zone di combattimento con le forze insorgenti e vietava ai membri di polizia e forze dell’ordine di parlare con gli inviati. In agosto il National Security Council ha convocato sei giornalisti sospettati d’aver dato vita a una pagine anonima su Facebook dedicata alla satira politica.

Forze militari Nato - Diecimila soldati Usa rimangono sul territorio nell’ambito della missione Resolute Support; solo alla fine del 2016 potrebbero essere dimezzati. Restano anche 850 militari tedeschi, 760 turchi, 500 italiani. Reparti statunitensi continuano a sostenere le forze armate locali nella repressione anti talebana per via aerea e con l’utilizzo di droni. In molte occasioni questi attacchi appaiono indiscriminati, è accaduto all’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz, colpito e distrutto da oltre un’ora di bombardamento e dall’uccisione di personale medico e infermieristico. Le indagini su quello che viene ritenuto un crimine di guerra non hanno finora prodotto effetti. Talvolta i giudici tornano a indagare su azioni particolarmente efferate, ad esempio lo sterminio d’un gruppo di persone a Wardak nel 2012, ma le nuove indagini egualmente si concludono con un nulla di fatto che peggiora il clima in un Paese che si sente alla mercé di ogni impostore, in divisa e non. Dal 2007 una Corte criminale internazionale sta valutando azioni delittuose sulle quali, però, cala spesso il velo dell’oblìo.

martedì 26 gennaio 2016

Calais e i nostri miserabili

E’ apparsa su un muro londinese, Knightsbridge, nel centro residenziale cittadino, dove le immagini danno fastidio quanto le presenze dal vivo. Trattandosi d’una miserabile, hanno cercato di cancellarla e poi celarla, per preservarla, dicono così, ripetendo anche per un fumetto quel che accade nella realtà. Si tratta del volto smunto di Cosette, l’eroina del celebre romanzo con cui Victor Hugo immortalò le vite di donne e uomini piegati dagli stenti, nella Francia della Restaurazione e poi delle riaccese speranze del Quarantotto. Il murale è un’opera dell’artista Banksy, genio di strada che con spray colorati riproduce le contraddizioni del mondo. Lo fa lì dove la società scava gli abissi delle divisioni di classe, centocinquant’anni e più dopo le vite di Cosette e Jean Valejan. La denuncia di Bansky è bipolare, impressa su una parete dell’ambasciata di Francia in terra britannica, poiché i governi Valls e Cameron si rendono responsabili di quei ghetti di moderni miserabili immersi nella paludosa fanghiglia ai margini di Calais. Visto che la piaga irrisolta dei migranti è incrementata dalle tante guerre che le stesse “repubbliche imperiali” incentivano.

Quel graffito ammonisce: perché ai disperati, già disumanizzati da condizioni esistenziali insostenibili, s’aggiungono trattamenti repressivi che ulteriormente li castigano? Certo, accanto alle speranze di collocazione nelle terre di qua o di là della Manica, spesso deluse da respingimenti, solo l’opera assistenziale di volontari introduce conforto e generi di necessità essenziale. Poi tutto sembra restare eguale: freddo e palta, igiene precaria e assenza di prospettive. Se qualche sindaco incarna gli ideali di Valjean-Madeleine deve fare i conti con norme che diventano più restrittive, non tanto per uno Schengen che rischia di sparire, ma per il possibile esaurimento di recettività di collettività che per paura chiudono le porte. Le palpebre di Cosette si socchiudono nell’assenza d’un orizzonte ridiventato oscuro. Nuovi narratori non solo di penna, ora che la realtà si riproduce con cento e più strumenti, mostrano tutto questo ma la coscienza civile stenta. La Storia sembra aver fermato un moto di progresso costruito sulla dignità che, come i valori della Rivoluzione di Francia, esordiscono e smarriscono la via. Esistono ma restano inapplicati. E nel moderno romanzo il lieto fine manca.  

lunedì 25 gennaio 2016

Sisi festeggia la sua rivoluzione


E’ il 25 gennaio e il presidente egiziano al-Sisi parla di Rivoluzione. Quella storica del 2011, fatta sua già un anno fa, quando lanciava proclami da presidente eletto per far dimenticare il preludio golpista. La storia scritta dai vincitori ha sempre verità favorevoli al proprio disegno e l’Egitto, spaccato in due già nei mesi seguenti il disarcionamento di Mubarak, risulta oggi ancora più frantumato. Il Paese sta conoscendo giorni addirittura più bui di quelli consolidati nel trentennio di dominio del longevo raìs, dato più volte per moribondo e coi piedi ancora ben piantati a terra, “detenuto” nella prigione dorata delle sue residenze dove anche i figli, ladri e truffaldini, circolano impunemente. Da due anni filati la più popolosa nazione araba vive il suo Termidoro, dopo aver incoronato il figlio-generale più celermente del dittatore diventato Imperatore di Francia. Quest’ultimo certe battaglie le combatteva, Sisi sta trovando avversari armati nei jihadisti del Sinai, mentre la fama di duro se l’è fatta contro la popolazione civile. Una scalata al potere macchiata di rosso sangue: quello di oltre mille, forse duemila, vittime della sua repressione solo nei due giorni d’agosto 2013.

Erano attivisti della Fratellanza Musulmana accampati innanzi alla moschea Rabaa al-Adawiya, in un’area periferica del Cairo, per protestare contro la defenestrazione e l’arresto di Mohammed Morsi, il legittimo presidente. Le vicende sono note, i media globali le trattarono a botta calda. Meno si parlò del massacro che rappresentava la macchia grazie alla quale la ‘Rivoluzione buona’ si faceva strada. Quindi gradualmente è sceso l’oblìo sul processo normalizzatore di Sisi; bastava sapere che fosse in marcia, che l’islamismo di governo fosse stato fermato. Ma le fosse e le galere, inizialmente riempite di migliaia di giovani islamici, trovavano e trovano ospiti d’ogni tendenza, lì finisce chiunque si macchi del peccato d’opposizione. Il regime che ha rassicurato un’ampia metà della popolazione egiziana, spaesata dall’approssimazione settaria del partito della Brotherhood, timorosa d’ogni cambiamento, disposta a rivestire gli stracci del suddito piuttosto che indossare i ruvidi abiti di dignità e libertà, i due princìpi irrinunciabili della Tahrir realmente rivoluzionaria, quel regime affonda le radici nel terrore. Centinaia di migliaia di cittadini l’hanno conosciuto in due anni, i più integerrimi e votati al martirio continuano a incontrarlo.




La quotidianità politica interna e nel Mashreq mediorientale sta mostrando diverse facce, cosicché risvolti e fughe fra l’opposizione repressa fanno pensare a scelte armate. Ora la componente jihadista organizzata nel gruppo Ansar Bait al-Maqdis mette a soqquadro il Sinai e pratica attentati in grandi centri in sinergìa col Daesh. Lo scontro attuale espropria le masse dalla lotta non necessariamente pacifica, visto che per mesi la morte ha vagato per via sull’onda d’una repressione sempre crudele, però gli oppositori islamici e laici avevano margini d’iniziativa. Il conflitto che è seguito a Rabaa sino all’elezione presidenziale di Sisi (maggio 2014) ha disegnato un quadro diverso: il consolidarsi d’un nuovo regime securitario. Peggiore di Mubarak e Sadat, peggiore del Nasser che tradiva il desiderio promesso di eguaglianza socialisteggiante, approdando alla boria personalistica. Sisi non somiglia a nessuno dei militari diventati raìs, che dismettevano l’uniforme per abiti civili e puntavano a favorire se stessi, i clan familiari, la lobby d’appartenenza. Li supera tutti per freddezza e cinismo, quelli che in luoghi come Azouly, la prigione militare a un centinaio di km nord-ovest dalla capitale. Fa vivere queste storie.
Amr venne arrestato nel marzo 2014, mentre sorseggiava un thè alla menta in un caffè della periferia cairota. Coi suoi diciassette anni era minorenne, venne comunque accusato d’essere un affiliato al gruppo Ansar, dunque un terrorista. Finì nella prigione citata, ma ce ne sono a decine simili in tutto il Paese, dotate di cellette della morte (un metro quadrato per uno nella totale impossibilità di distendersi e senza poter usufruire del gabinetto) dove si può restare per settimane nell’angoscia e nel fetore. Non sono luoghi di detenzione ma di tortura psico-fisica, coi metodi conosciuti di botte semplici (calci, pugni) o particolari (bastoni, sacchetti di sabbia), scariche elettriche, getti d’acqua gelata in ogni stagione, tecnica dell’affogamento in vasche o secchi. E stupri nei confronti di donne e uomini, soprattutto adolescenti e giovani. Un Egitto anche peggiore di quello conosciuto da Samira, la studentessa abusata da un ufficiale-medico dell’esercito nel Museo del Cairo durante le settimane di sogno di libertà, l’Egitto che voleva allontanare lo spettro del massacro di Khaled Said, il cui decesso e la vibrante protesta fece da anticamera alle rivolte della dignità del 25 gennaio.

Soffocate dalla violenza e dalla paura di finire in quei luoghi, perché quell’Amr, che jihadista non era rimase per due anni con la vita appesa a un filo venendo fuori dall’inferno di Azouly solo sull’onda degli interventi di Associazione dei Diritti mobilitate per la liberazione dei tre giornalisti di Al Jazeera. Ma altri reporter, e blogger, e militanti laici restano rinchiusi. Mentre di centinaia di loro si son perse le tracce. Iniziarono i ribelli delle strade, alcuni erano appunto i tamarod, su cui i partiti laici che aprirono gli spazi per Sisi contro la Fratellanza, avevano puntato. Sono diventati vittime di colui che osannavano, alla stregua di tanti islamisti spariti nel nulla. Molti di loro, giovanissimi e senza famiglia non hanno avuto nessun parente che ne rivendicasse la scomparsa. Eppure si sono dematerializzati anche tanti figli e fratelli e sorelle e padri e mariti d’un pezzo d’Egitto rimasto monco di migliaia di vite umane. Di questo il regime non parla, al contrario recita il ruolo del buon amministratore sostenendo, come fa Fattah Osman responsabile delle relazioni esterne del ministero dell’Interno, che: “Quanto narra la stampa ostile alla nazione non ha nulla a che vedere con la realtà, le prigioni egiziane sono diventate come hotel”. Non specifica quante stelle abbiano questi hotel.

venerdì 22 gennaio 2016

Saud, la dinastia al tramonto che non molla

Secondo certi sudditi, che twittano ovviamente celati dietro account di fantasia, i Saud sarebbero una dinastia sul viale del tramonto. Altri sostengono che quella famiglia, alla guida del Paese da ottant’anni, sia “il meglio del peggio”, altri ancora assicurano che per nessuna ragione abdicherà. Ai cittadini sauditi re Salman chiede “ascolto e obbedienza”, chi non lo fa rischia. Non una coercizione ordinaria basata sulla “semplice” galera. Da quelle parti i giudici wahhabiti applicano la Shari’a coi crismi più violenti possibili e le teste volano sotto la spada di Allah. Nelle scorse settimane la punizione divina per mano umanissima dei boia di regime, fra i 44 condannati a morte ha colpito anche una personalità di rilievo del mondo sciita come Nimr al-Nimr. Ha mescolato pruriti securitari diretti alla maggior parte dei condannati qaedisti, a manovre geopolitiche lanciate contro il nemico regionale di sempre: l’Iran. Così la dinastia che ripristinò la linea monarchica saudita in età contemporanea con Abdulaziz, negli anni Venti e Trenta e Saud nei Cinquanta; che ha conosciuto intrighi interni con l’assassinio di Faysal (1975) per mano d’un cugino, morti improvvise (Khalid nel 1982) per malattie cardiocircolatorie, disabilità sopravvenute (Fahd) sempre per infarti, e ha assistito alla nascita del jihadismo nutrito dai princìpi wahhbiti tanto cari alla stessa corona, cerca nella spada e nella verga gli strumenti per il mantenimento del potere.
Fra il “riformatore conservatore” re Abdallah - negli ultimi tempi della sua conduzione impegnato a promuovere studi all’estero (principalmente negli Usa) dei giovani rampolli del Paese e attuare programmi sanitari volti a limitare l’incidenza di tumori femminili - e la prassi intrapresa dal successore Salman i Saud hanno subìto metamorfosi contraddittorie. La nazione continua a far leva sulla forza di ‘Stato redditiero’, ricchissimo negli investimenti interni con la crescita esponenziale di tutto ciò che fa immagine: bei palazzi, banche, ristori e negozi di merce griffata (ma non cinema e luoghi di fruizione artistica) al centro di Riyad e anche nelle nuove periferie come Atturaif. Gli investimenti di colonizzazione sono rivolti anche all’estero, il Libano ne è un antico esempio. I sauditi accrescono le velleità di supremazia regionale, sia attraverso investimenti di colonizzazione (il Libano è un esempio antico), sia con l’uso della forza: il Bahrein nel 2011 e lo Yemen d’oggigiorno. Secondo le posizioni del ministro della Difesa, che poi è il figliolo del sovrano, le iniziative militari in corso sono nient’altro che una tutela da quelle componenti etniche (Houthi) presenti nella penisola arabica, a suo dire, destabilizzatrici dai primordi del regno saudita. Il trentenne Bin Salman è il futuro della dinastia, ma non è detto che sarà un futuro lontanissimo.
Per ora l’ottantenne Salman ha designato come successore il nipote Bin Nayaf. Cinquantasei anni, ponderato, ma deciso perciò in linea con la tradizione che vuol dire spietato quando occorre. E’ diventato celebre, durante il regno di Abdallah, per aver condotto una lotta senza quartiere ai seguaci interni di Bin Laden, presenti ben oltre il suo abbandono della penisola. Anche tramite la spinta di Bin Nayaf la Cooperazione del Golfo ha fatto quadrato a difesa del ruolo di magnati del petrolio che garantivano la sicurezza propria e degli alleati occidentali. Così contenti tutti, a Riyad, Abu Dhabi, Kuwait City, Washington, Londra. Quando Salman, l’anno passato, scelse Bin Nayaf per la successione si disse che lo faceva perché questi non avendo discendenti e avrebbe comunque passato lo scettro a Bin Salman. Non è detto, però, che l’attuale Saud in trono, sanguigno e sanguinario, non tiri fuori dalla kefiah un ripensamento a favore dell’amato erede diretto. Potrebbe farlo, può farlo anche per l’appoggio che trova nei settori più chiusi degli emiri-capitalisti e nel clero wahhabita. Le condanne a morte, sensibilmente aumentate nell’ultimo anno, rispondono anche al piano di tenere buoni i chierici reazionari, gli spazi d’azione più ampi concessi alla polizia religiosa (Mutawwi’a), che interviene per via, redarguisce e punisce, come nei territori del Daesh.
Tale mossa ha la duplice finalità di accattivarsi i consensi di quel clero e di misurarsi sul terreno teologico-comportamentale cavalcato da al Baghdadi e rintuzzarne la concorrenza. Certo i due Bin, diversi generazionalmente da king Salman, fiutano le esigenze della gente, del mercato, della macro politica. Entrambi pensano che occorre anche essere recettivi ai cambiamenti, praticare la flessibilità come forma tattica per poter elaborare strategie vincenti in situazioni diventate estremamente complesse. Di tale complessità i sauditi sono fra gli artefici, nell’incentivare il caos mediorientale, aiutando il jihadismo fondamentalista sunnita, oppure subiscono gli effetti dell’eterno conflitto petrolifero. Questo negli ultimi tempi aveva visto all’attacco i nuovi padroni occidentali dei giacimenti petroliferi (e di gas) scovati sotto le rocce, a cui Riyad ha risposto con l’aumento della produzione. Prezzi al barile crollati (ma non alla pompa i petrolieri globali, Sette Sorelle e dintorni, risultano più speculatori degli emiri). Se questo conflitto peserà anche sulle spalle della casa regnante è una delle cognite dell’oggi e del domani, giocato principalmente sulla pelle di quelle comunità etniche diseredate in viaggio sulle rotte della migrazione forzata, che ormai non hanno né Dio né Patria, né Re né Repubbliche. Islamiche o laiche.