martedì 17 gennaio 2017

Scatta l’era Trump: disgelo iraniano nel mirino


Con l’approssimarsi dell’era Trump un gruppo di analisti che s’è occupato dell’accordo sul nucleare iraniano - uno dei pochissimi risultati che l’accoppiata uscente Obama-Kerry ha potuto vantare - inizia a porsi il problema del possibile terremoto che il nuovo inquilino della Casa Bianca potrebbe portare nella politica estera statunitense. Dopo una campagna elettorale al fulmicotone e un più “rassicurante” approccio seguìto alla vittoria, nell’avvicinarsi dell’ora del potere il 45° presidente statunitense lancia stoccate capaci di preoccupare anche uomini di sponda repubblicana o Brennan, ex capo della Cia. Nella maggiore crisi mondiale in corso, quella siriana le cui sorti riguardano un’emergenza umanitaria senza precedenti che coinvolge un intero popolo diviso fra profughi esterni e interni, sfollati finora scampati alle bombe ma non agli stenti, civili divisi fra pro e contro il regime di Asad, più assetti geopolitici internazionali e regionali con logiche di espansione, controllo e interesse di parte, giù fino allo spettro del Daesh combattuto da tanti ma icona per ogni sorta di jiahadsmo, uno degli attori impegnati che può risultare un interlocutore in ipotetici colloqui di pace è appunto l’Iran. La nuova amministrazione statunitense potrebbe continuare a disinteressarsi della faccenda, seguendo l’ondivago opportunismo di chi l’ha preceduta o cambiar passo. Un approccio accorto dovrebbe evitare quegli eccessi ventilati da Trump che oscillano dall’isolamento a un iper protagonismo aggressivo.
A tre giorni dall’insediamento a Washington l’attenzione si sta concentrando sull’accordo sul nucleare iraniano. Prospettarne una revisione, dopo che Teheran s’è resa disponibile a contenere il suo programma di arricchimento dell’uranio, sembra un autogol privo di senso.  La fase pragmatica che ha prodotto la presidenza di Rohani, chierico aperto a una diplomazia dialogante, costituisce nel regime degli ayatollah più abbordabile dei panorami interni. La rimozione delle sanzioni da parte occidentale restituisce al Paese un po’ di respiro, avvantaggiando quell’economia sostenuta dalla vendita dei prodotti energetici; così com’era accaduto a fine anni Novanta quando, anche grazie a introiti simili, il blocco riformista di sostegno a Khatami riusciva a parlare anche di diritti. Durò poco, ma è tuttora ricordato come una fase di speranze internazionali e nazionale. Ovviamente secondo la visione d’una parte del Paese, perché i conservatori sbarrarono la via a ogni confronto interno ed esterno. In quest’ultimi mesi il mercato petrolifero iraniano s’è riavvicinato ai livelli pre sanzioni (i dati parlano di circa 4 milioni di barili al giorno) e le finanze  recuperano 11 miliardi d’investimenti stranieri, sebbene la carenza di legami bancari stia penalizzando questa ripresa (fonte Joint Comprehensive of Action Plan). L’azzeramento dell’accordo sul nucleare è tutt’altro che certo, ma non si può escludere una graduale erosione, magari perseguita coi colpi a effetto del presidente-tycoon. Il percorso nucleare iraniano, non è un segreto per nessuno, ha risvolti di carattere civile e militare, gli accordi congelavano il secondo. Una rimessa in discussione dei patti può avere ricadute su una sfera che i rappresentanti di Teheran hanno sempre considerato afferente alla difesa. Nell’incandescente quadro regionale, coi territori di Siria e Iraq in fiamme,  distinguere fra interessi espansivi e difesivi può dar adito a incomprensioni assolute.
Il neo presidente Usa potrebbe essere stuzzicato dal desiderio di entrare da protagonista sulla scena mondiale e farlo con lo stile dell’elefante nella cristalleria, che comunque rientra nella tradizione statunitense di varie epoche. La formazione del suo staff ha già fatto venir la pelle d’oca, accanto a sodali e affaristi collocati in ruoli di primo piano, come l’uomo Exxon Tillerson, promosso Segretario di Stato e l’ex Goldman Sachs Bannon, Capo della strategia presidenziale nonostante, o forse proprio in virtù, degli orientamenti razzisti che lo fanno apprezzare dal Ku Klux Klan, troviamo un duro vecchio stampo: il deputato del Kansas Pompeo. A lui è stata offerta la carica di direttore della Cia, e proprio lui ha più volte dichiarato di voler seppellire l’accordo nucleare con l’Iran. Ecco basterebbe questo trio - e taciamo su collaboratori che vanno dal militarismo delle Rendition (Mattis) all’islamofobìa spinta (Flynn) - a ispirare il presidente Usa per una passata di spugna sull’accordo. Gli altri interlocutori di quel patto (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, più Germania) dovrebbero scoraggiare fughe in avanti degli Usa, ma non è detto che lo faranno o ci riusciranno. L’ipotesi di un simile passo riaprirebbe un fronte in un Medio Oriente squassato e sarebbe una vera manna per i conservatori iraniani in relazione alle prossime presidenziali di maggio. La riconferma di Rohani non è affatto certa e la dipartita di Rafsanjani indebolisce i moderati. Seguiremo questo cammino perché la partita fra tradizionalisti e riformatori, che nella Repubblica Islamica Iraniana, dura da circa trent’anni, non s’è mai chiusa.

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