martedì 11 aprile 2017

Turchia davanti al referendum di Erdoğan

S’approssima il voto popolare sul presidenzialismo turco. Nel fine settimana Erdoğan s’è recato nella tana del lupo: l’Istanbul riottosa, laica, ribelle, colei che con la rivolta del Gezi park ha segnato l’avvìo della terza fase politica del percorso del premier e ora presidente, caratterizzata dallo scontro e dal dominio. Incondizionati. Quella, comunque, è anche la sua tana. Lì ha iniziato l’ascesa al potere, vestendo i panni di sindaco e negli anni una grossa fetta della metropoli cosmopolita s’è fortemente islamizzata. Gli istanbulioti e le tantissime giovani istanbuliote che hanno partecipato alla manifestazione per il sì hanno dato energia alla prova di forza voluta lì predisposta. Ragazze orgogliosamente velate agitavano cartelli con l’immagine del presidente, per nulla preoccupate del soffocamento democratico che lamentano i sostenitori del no. Sul Bosforo i repubblicani, la gioventù laica di sinistra, la comunità kurda, oppositori storici dell’autoritarismo militare o islamista, secondo i sondaggi opporranno una resistenza in ogni urna, ma rovesciare i pronostici che danno vincente il sì risulterebbe un miracolo. Il padre-oratore ha infiammato i sostenitori dicendo che col voto occorre “Far tremare i cuori di coloro che hanno contaminato quella città 99 anni fa”. Il riferimento è parzialmente criptico. Andando al primo conflitto mondiale l’oggetto è straniero: quella Germania e Olanda che, di recente hanno impedito ai ministri di Ankara d’incontrare i connazionali che sono elettori al referendum di domenica prossima. L’immensa platea ha risposto a tono: “Erdoğan è il nostro eroe, ha risollevato la nazione e il popolo”. “Le trasformazioni in corso rendono il Paese più forte”. “Con un governo forte saremo più tutelati e sicuri contro il terrorismo”. Per il sultano una magnifica conferma che la linea securitaria trova conforto e sostegno fra la gente. E visto che l’offensiva paga, e forse anche le offese, il presidente ha lanciato un rush finale scoppiettante. Ieri ha rivolto un’esplicita accusa a Kılıçdaroğlu, affermando che nella notte del golpe fallito il leader repubblicano avesse patteggiato coi gülenisti una fuga per abbandonare Istanbul sotto attacco del manipolo putschista.

Dal quartier generale del Chp non sono giunte reazioni esasperate. Avranno pensato che di fronte a sondaggi che vedono in ripresa il fronte del no, è meglio non cedere alle provocazioni per non interrompere il trend con una rissa anche solo verbale. L’entourage erdoğaniano non aspetta altro. Oggi risponde con un’intervista esclusiva ad Al Jazeera uno degli esponenti del no, Sezgin Tanrikulu. Sostiene che il processo riformatore è nato male: Le costituzioni devono avere la condivisione di cittadini e forze politiche, noi andiamo al referendum in un clima di polarizzazione, non di compromesso”. “Anche il Chp vede certi difetti del sistema parlamentare, ma le proposte dell’Akp riescono ad acuire i problemi anziché risolverli. Mentre si abolisce il sistema parlamentare, si va a introdurre un modello maniacale senza precedenti. Il sistema parlamentare non è qualcosa d’intoccabile e sacro, però le questioni che la Turchia attraversa non dipendono da esso, ma dal percorso politico che il Paese ha intrapreso. Ad esempio c’è un problema di rappresentanza con una soglia elettorale al 10% che entrò in vigore dopo il golpe del 1980. Questo difetto è stato ampiamente utilizzato dal partito di governo a discapito di rappresentanze minori”. E aggiunge: “Nella scadenza elettorale l’Akp sta riversando la ricerca del consenso per la propria linea senza affrontare alcune contraddizioni della fase attuale. Punta a un sì incondizionato, nonostante il conflitto coi kurdi sia tornato a infiammare il Paese; nonostante siano riapparsi palesi orientamenti antidemocratici degli apparati statali. Anche i contrasti con Germania e Olanda appartengono a polemiche fra destre politiche che si alimentano a vicenda, sperando di ottenerne vantaggi nell’urna”. Intanto s’è avviata la consultazioni dei turchi all’estero. Su tre milioni ha votato meno della metà, i dati ufficiosi ne contano poco più di 1,2 milioni.  

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