sabato 16 settembre 2017

Referendum Kurdistan: Washington lavora per il rinvio


Alleato sì, ma sempre secondo propri interessi e dettami, perciò Washington in queste ore sta spingendo affinché Massoud Barzani e il suo partito (Pdk) mettano da parte la scadenza del referendum d’indipendenza del Kurdistan fissato per il 25 settembre. ‘Non è tempo di voto’ sostengono alla Casa Bianca e qui la frattura diventa netta, perché nel territorio fremono i preparativi con tanto di striscioni e cartelli elettorali. La posizione statunitense non è un diniego, si vuole posticipare la consultazione in una fase meno turbolenta. Però l’affermazione diventa sibillina, visto il crescendo bellico registrato in questi anni nella regione, dove i peshmerga kurdi hanno giocato un ruolo di primo piano nella difesa dei propri territori e nell’offensiva per la riconquista delle aree occupate quattro anni addietro dai miliziani del Daesh. Tutto ciò è stato reso possibile anche grazie agli armamenti ricevuti dal Pentagono, ma la leadership di Erbil si sente in credito coi politici d’Oltreoceano, obamiani o trumpiani che siano. Col referendum, pur limitato ai territori del Kurdistan iracheno, entra in ballo il fattore per un secolo evitato dalla politica coloniale mondiale: la creazione di una nazione kurda. O perlomeno di un suo embrione.
La frammentazione della cospicua comunità in quattro Paesi, le divisioni interne fra i vari ceppi etnici, le ulteriori divisioni politiche fra i kurdi anche dentro la stessa comunità, come accade nella regione irachena, non cancellano il fantasma con cui la geopolitica mondiale non vuole misurarsi. Le nazioni forti del Medioriente infiammato, Turchia e Iran, coinvolte direttamente e per interposte fazioni nella crisi e guerra siriana, sono entrambe contrarie a concedere autonomie locali sia entro i propri confini sia fra i vicini. Egualmente le potenze mondiali americana e russa, attente agli sviluppi del possibile ridisegno mediorientale non gradiscono la frantumazione di due Paesi alleati e protetti: Iraq e Siria. E’ una contraddizione perché di fatto queste nazioni si ritrovano  disgregate da terribili guerre, anche fratricide. Il quadro è in divenire, partite e obiettivi differenti s’incrociano su uno scacchiere quanto mai complesso. Washington lavora per conservare il consunto status quo con cui Baghdad riconosce da tempo l’autonomia del territorio del nord, definito Kurdistan. I kurdi, però, accanto al marchio d’indipendenza, vogliono inserire nella regione la provincia di Kirkuk, coi tanti pozzi petroliferi che costituiscono una delle perle del governo centrale iracheno (e delle compagnìe estrattive mondiali che li sfruttano).
Contro quest’ipotesi si schierano anche le minoranze arabe e turkmene presenti in quella fetta di territorio che continua a essere disputato non solo per fini economici e politici, ma di appartenenza etnica. Nei decenni si sono ripetuti contrasti fra clan e comunità con faide e spostamenti di gruppi, occupazioni e demolizioni di case, razzie e vendette. Attualmente il governo di Baghdad non ha l’autorità e la forza militare né del trascorso regime baathista, né della prima fase di transizione. Ma se opponesse un’azione di forza sul tema referendario, magari con l’avallo statunitense, la contrapposizione fra gruppi etnici rilancerebbe un caos violento poco controllabile. E’ l’opzione che teoricamente tutti scongiurano, sebbene in contemporanea ciascuna parte alza la voce senza optare per il dialogo. In più la recente uscita di Trump sulla vicenda: “La questione del referendum kurdo distoglie l’attenzione dall’impegno primario: la lotta all’Isis” anziché compattare le parti, ha gettato benzina sul fuoco visto che mette in discussione un tema caro ai peshmerga, i combattenti sul campo dei miliziani neri. Costoro, dopo gli encomi, cercano l’incasso politico e mercantile.

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