giovedì 21 settembre 2017

Trump-Rohani, il disaccordo sull’Accordo


Assurdo e odioso”. Così il presidente iraniano Rohani ha definito nel proprio intervento alle Nazioni Unite lo sproloquio dell’omologo Trump. La ferma e decisa risposta con cui ha anche ricordato che le dotazioni missilistiche del suo esercito hanno funzioni “deterrenti e difensive per il mantenimento della pace regionale, per la stabilità e la prevenzione da avventure, perché non dimentichiamo i civili di alcune nostre città diventati bersaglio degli attacchi di Saddam per otto anni di guerra d’aggressione”, non ha perso il tono diplomatico che caratterizza la sua linea. Le uniche durezze hanno riguardato “l’entità sionista” bollata come un furfante che lavora per destabilizzare il Medioriente. E lo staff del 45° presidente statunitense “i nuovi arrivati della politica che rimettono in discussione un accordo (sul nucleare, ndr) da prendere come modello che rende più sicura l’area regionale”. Con l’aggiunta di una battuta sulla moderazione che “è sinergia delle idee, non una danza delle spade”. Quindi una chiusura profondamente critica, con cui Rohani ha lanciato un monito all’intera assise internazionale “Il governo americano dovrebbe spiegare alla sua gente perché l’uso di miliardi di dollari, beni del popolo statunitense e della nostra regione, invece di contribuire alla pace e stabilità ha prodotto solo guerra, miseria, povertà e ascesa di terrorismo ed estremismo”. Per il resto l’intervento del leader iraniano ha tenuto toni costruttivi e anche autocelebrativi. Il presidente-mullah ha ricordato come solo pochi mesi fa il suo popolo gli ha confermato un mandato con grandi numeri di partecipazione (“41 milioni di elettori si sono recati alle urne, scegliendo la linea della moderazione e del rispetto dei diritti umani”, la sua linea.
Un percorso che non rappresenta interessi di parte o personali “ma un investimento per il nostro popolo”. Il tutto condotto col rispetto per le persone e la pace (sicuramente  associazioni come Human Rights Watch o Amnesty International  non concorderanno nel merito riguardo alla pena di morte, ma questo vale anche per altri Paesi, a cominciare da Stati Uniti e Cina). Poi l’uomo di Teheran ha fatto intendere che non sarà certo la minaccia di rinnovate sanzioni a bloccare e intimidire il suo Paese. Poiché quello che già girava ieri, in talune commissioni riunite al Palazzo di Vetro, era la ricerca della via punitiva. Dopo le scudisciate del capo, Rex Tillerson tesseva la tela per provare a rendere praticabile la revisione del Joint Comprehensive Plan of Action, meglio noto come il patto sul nucleare iraniano, sancito da Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania. Se Trump aveva tagliato corto parlando d’azzeramento, la via burocratica con cui si cerca di neutralizzarlo è più sottile. Il presidente Usa ha tempo sino al 15 ottobre per riferire al Congresso se l’Iran stia lavorando per mettere in pericolo la ‘sicurezza statunitense’. Se riuscisse a dimostrarlo e ricevere un assenso, potrebbe rilanciare verso l’Onu la ridiscussione del patto. Quella che era una  promessa elettorale e l’accrediterebbe agli occhi di elettori e detrattori. “America first!” per coerenza e fermezza. Sicuramente troverebbe contrarie Russia e Cina, ma il tignoso Tillerson non demorde.
Per ora consta la contrarietà dell’Alta rappresentante Eu per la politica estera Mogherini e del presidente francese Macron, sul quale, si dice, stia preparando un lavoro ai fianchi sul cavillo non dell’abrogazione bensì di una “revisione dell’accordo”. A chi lo pressava per novità sulla sua iniziativa, l’ex capo esecutivo della Exxon entrato nello Studio Ovale dichiarava “In ogni trattativa, prima di constatare la possibilità di realizzare passi in avanti il quadro si presenta sempre nero. Finora ho visto strette di mano e nessun urlo” se ne deduce massima fiducia nelle strategie future. Nelle disposizioni del Jcpoa non c’è un tema tanto caro a Trump nel recente personale braccio di ferro con rocketman-Kim: l’armamento missilistico. L’arsenale iraniano e le conseguenti ricerche tecnologiche di Teheran non erano state limitate proprio perché - come hanno constatato gli osservatori internazionali, ha sempre sostenuto durante i due anni di colloqui il ministro degli Esteri Zarif e ieri ha ribadito Rohani - hanno uno scopo unicamente difensivo. Ma in discorsi sul Medio Oriente in fiamme, di cui il presidente iraniano ha ricordato nazioni e popoli islamici (in Yemen, Siria, Iraq, Bahrein, Afghanistan) oggetto di aggressioni, è inevitabile che si entri nel merito di strumenti di difesa, sebbene l’Iran impegna su certi fronti soprattutto “consiglieri” dotati di armi leggere. Il filo che il Segretario di Stato statunitense tende verso gli alleati occidentali per cucire una revisione degli accordi dei 5+1 è quello dell’ingerenza iraniana nei focolai di crisi. Ovviamente il pulpito è totalmente screditato per sermoneggiare verso altri, cosa che Trump e Tillerson sanno benone. Ma loro rilanciano la politica del cow-boy che spara preventivamente su tutto quel che si muove per sentirsi al sicuro e giocare col cadavere più che col nemico vivo.

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