martedì 28 novembre 2017

Pakistan: la protesta islamista fa dimettere il ministro



Vincono i sit-in e le barricate degli islamisti. Il premier pakistano Abbasi abbassa la guardia e fa dimettere il contestato ministro della Giustizia Hamid. Anche perché l’esercito, che il governo non aveva voluto mobilitare nonostante il traffico verso la capitale fosse bloccato da tre settimane con situazioni incresciose per l’intera comunità, ha fatto capire che avrebbe disobbedito a ordini repressivi. Dunque, una delle due lobby della forza (l’altra è la potentissima Inter-Service Intelligence) ha preso posizione a favore del crescente movimento islamista, diventato partito: Tehreek-i-Labaik Ya Rasool, rinverdendo i trascorsi del generale Muhammad Zia-ul Haq, il dittatore che negli anni Ottanta incentivò il diffondersi nel Paese delle leggi islamiche. Il partito Tehreek è di recente formazione, ma già conta di un discreto seguito elettorale; ora per le pretese mostrate dai propri ulema cercherà di trarre vantaggio da un simile successo. Che mette in discussione l’approccio mediatorio offerto dai leader laici legati a clan familiari (Bhutto, Sharif) passati dai vertici nazionali a conseguenti cadute per attentati o cause di corruzione. Nel luglio scorso Nawaz Sharif aveva dovuto abbandonare l’esecutivo perché coinvolto nello scandalo dei ‘Panama Papers’. Alla politica ufficiale, che colloca il Pakistan fra gli Stati in competizione per l’egemonia regionale tramite un’alleanza privilegiata con gli Stati Uniti tratteggiata da reciproche ambiguità, si contrappone l’azione dell’Islam politico interno, variamente organizzato.
Per un lungo periodo i porosi confini occidentali hanno assunto la funzione di rifugio dei combattenti talebani afghani appoggiati dai fratelli pakistani. Tuttora i territori delle cosiddette Fata (Federal Administered Tribal Areas) sono un mondo a parte dei due Stati che, comunque, sospettano l’uno dell’altro. Le leadership afghane di ogni epoca e fase geopolitica hanno sempre temuto una cannibalizzazione da parte dei vicini, quest’ultimi diffidano dell’instabilità che i talebani esterni, in combutta con gli interni, possono portargli in casa. I Talib stessi da almeno vent’anni non sono un’unica famiglia politica. Anzi. Scissioni e differenti fazioni ne fanno entità diverse. Trattandosi di movimenti che pongono al centro delle proprie scelte precisi indirizzi confessionali applicati alla politica, occorre seguirne anche le evoluzioni. E nella galassia del fondamentalismo islamista pakistano occorre distinguere orientamenti in aspro conflitto fra loro: i seguaci delle teorie deobandi, influenzate dal wahabismo, e i gruppi barelvi ispirati dal sunnismo hanafita. Fra quest’ultimi, cui appartiene il movimento Tehreek-i-Labaik Ya Rasool in azione a Islamabad, alcuni predicatori si mostrano integerrimi nel sostenere lotte ma non sono propensi alla violenza, altri perseguono gli obiettivi con ogni mezzo.
In passato i berelvi hanno condotto campagne politiche contro i talebani di cui condannano il radicalismo armato e gli attentati suicidi. Eppure c’è chi non crede allo spirito sufi che filosoficamente dovrebbe apparentare molte anime del sunnismo asiatico, perché nella stessa esasperazione teorica traspare quell’intolleranza di ritorno che caratterizza ogni fondamentalismo. E la questione della blasfemia può diventare un pretesto per attaccare qualsiasi espressione e manifestazione di minoranze religiose o le medesime posizioni politiche avverse. I più preoccupati sono gli avvocati dei diritti che già vedono perseguitati quegli attivisti politici e giornalisti fuori dal coro accusati di islamofobia semplicemente in base a libere espressioni di pensiero o resoconti di cronaca. Il partito di governo, Lega musulmana pakistana, che in occasione di quest’ultima crisi ha assunto la posizione neutrale di osservatore, scaricando ogni responsabilità al ministro della Giustizia e patteggiando per lui coi religiosi che guidavano la protesta l’esenzione da qualsiasi fatwa personale, sembra giocare col fuoco. Il blocco sociale che lo sostiene è popolare ma incentrato su una sorta di ceto medio, mentre gli strati più poveri sono maggiormente sensibili ai richiami religiosi trasportati in politica. Un’accentuazione dell’identità musulmana basata su questioni di rigore e purezza può sicuramente favorire posizioni estreme. Il governo gioca sul clima di paura fra la gente, mentre l’esercito potrebbe adottare la prassi doppiogiochista dell’Isi.

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