lunedì 19 febbraio 2018

Le vite sospese nella Turchia incatenata


La sospensione della vita per gli avversari di Erdoğan passa anche attraverso la trafila di processi kafkiani messi in atto dal nuovo Atatürk anatolico che i politologi definiscono sultano. Non solo per la fede islamica irregimentata a sistema politico, ma per la personalizzazione con cui incarna una nazione e il suo popolo cui chiede anima e corpo. Questa sospensione può toccare tutti. Un destino giuridicamente guidato l’ha rivolto anche a casi d’omonimia come quello di Asli, scrittrice libera e perciò pericolosa per Erdoğan, pure se lei si chiama Erdoğan. Non c’è celia nelle sentenze vomitate dal tribunale turco alla fine della scorsa settimana: condanne all’ergastolo per scrittori, intellettuali, giornalisti finiti nella rete repressiva dello Stato con l’accusa di appartenere al movimento gülenista. Quello accusato dal presidente turco di star dietro il tentato golpe di metà luglio 2016. Le recenti pene colpiscono alcuni elementi: il manager Yakup Simsek e l’art-director Fevzi Yazici, del quotidiano Zaman, da sempre indicato come voce dell’imam Fethullah Gülen, l’imprenditore un tempo amico e da anni odiato nemico del partito e dell’uomo di potere in Turchia. Colpiscono anche una famosa opinionista, Nazli Ilicak, che s’era permessa di affermare come il movimento Hizmet non sia un’organizzazione terrorista. Ma c’è ergastolo per tutti, anche per gli altrettanto noti fratelli Altan, lo scrittore e giornalista Ahmet e l’economista Mehmet che avrebbero lanciato all’opinione pubblica “messaggi subliminali” per un’adesione al colpo di mano militare.

Sub limen, sotto la soglia dell’inconscio avrebbero lavorato i due cervelli Altan per condurre alla disobbedienza una popolazione che, ascoltandoli in programmi televisivi, leggendone le note editoriali, sarebbe stata influenzata dai loro orientamenti non conformi alle direttive del regime. Neppure la pubblicità è così sicura che questi input passino attraverso il messaggio diretto o quello destinato all’inconscio; lo stesso dicasi per la propaganda politica e ideologica. Insomma studi scientifici hanno ribaltato le teorie di Vance Packard, in voga a inizio anni Sessanta. Ma quello Stato inquisitorio che è diventato la Turchia erdoğaniana cerca appigli per la sua caccia al nemico che va assai oltre le vicende accadute. Il tentato putsch di alcuni reparti di esercito, aviazione e marina più alcune fazioni della Jandarma (la polizia militare) è apparso sotto gli occhi di tutti. Realtà, finzione? Ne è seguito un balletto accusatorio fra Gülen, additato quale ispiratore e organizzatore, e la risposta al presidente turco a suo dire regista d’una messa in scena per poter scatenare una pesantissima repressione funzionale a un repulisti securitario: 50mila arrestati (quasi 9000 poliziotti, 7000 fra ufficiali e soldati, 2600 magistrati) con 170mila procedimenti giudiziari aperti e 150mila soggetti epurati dai pubblici servizi. Lo stato d’emergenza scattato e protratto per mesi s’è accompagnato alla crescita d’una caccia a qualsivoglia avversario, dai parlamentari repubblicani e dell’opposizione kurda, ai militanti del Pkk, considerati direttamente terroristi.

In questo clima ogni voce fuori dal coro risulta sgradita e passibile non solo di censura, ma di sospensione d’ogni diritto, quello della libertà innanzitutto. Così un sistema che costruisce consenso creando mostri adotta la mano pesante come unica forma d’identitaria, trovare nemici e capri espiatori è diventato in Turchia l’unico percorso politico ammissibile, che usa le stesse Istituzioni, governativa e parlamentare, per intimidire e assoggettare. Gli apparati di controllo della politica, come quello giudiziario sono stati ripuliti e predisposti alle direttive presidenziali, che poi sono quelle dell’uomo solo al comando, vista la controriforma costituzionale non a caso approvata grazie all’appoggio del partito nazionalista e fascista dei Lupi grigi. In questa Turchia uno dei massimi esponenti dell’intellighenzia, il citato Ahmet Altan, finisce in galera addirittura a vita e non sa, come denuncia la scrittrice Erdoğan se questa gogna potrà finire o sarà destinato a marcire in galera alla stregua del leader kurdo Öcalan, ormai vicino al ventennio di detenzione. L’uso che l’Erdoğan sultano fa di questi “prigionieri”, definiti in tal modo dai fedelissimi magistrati, è eminentemente politico. Di quella personalizzazione della politica con cui riesce a praticare con indifferenza qualunque svolta a 360°, attuando e azzerando ogni patto, come ha mostrato in questi anni con le minoranze interne e in Siria. Padrone del tempo e dello spazio, carceriere dei pensieri e degli uomini che vogliono vivere liberi.

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